martedì 9 febbraio 2010

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A volte mi sembra che qualcuno mi segua. Mi giro, ma non trovo niente.
Bevo il mio tè cinese e non vorrei sentirmi come una che fa le cose tanto per sperare di trovarci un ricordo piacevole dentro, ma lo sono.
Cerco di tenermi impegnata, le giornate si susseguono grigie, piovose, abbondanti di cibo e parole. In Cina tutto era silenzioso, ad un certo momento della giornata
Mi affacciavo alla finestra enorme, luminosissima e guardavo il tizio affacciato a torso nudo, con la sua sigaretta tra le dita, che come me fissava da qualche parte. La strada stracarica di macchine, biciclette, persone.
Calava la notte, senza nemmeno accorgersene, sputacchiava un pò di arancione qua e là, tra la nebbia e il gelo e l'afa e poi crollava giù, ricoprendosi di tante lucette ad intermittenza.
Quell'odore amaro di attesa, di successo, di cibo fritto.
La casa era un porcile, il frigo era vuoto. Mi lasciavo andare con una consapevolezza che mi sembrava saggia, potente: non mangiavo. QUando sentivo lo stomaco soffrire ero sconfitta dall'impossibilità di trovare qualcosa che non mi facesse male, allora provavo ad evitare di mangiare.
Poi mi riprendevo, non ci pensavo. Scendevo in strada e afferravo una patata dolce dal mucchio, uno sguardo di sfida alla tizia che soppesava la patata e poi mi diceva 3 kuai. Troppo, per una patata dolce, niente per le mie tasche, abbastanza per il mio stomaco schizzinoso.

Una gita al mercato di fronte casa, a vedere i vestiti coreani tanto alla moda, tutti uguali, che si capiva lontano un miglio che erano coreani ma erano FIGHISSIMI, quindi bisognava averne almeno uno. Con una mano in tasca a toccare i 100 kuai da dedicare allo shopping, con l'altra tastavo le stoffe, i tessuti, cercavo le taglie, la bocca sempre socchiusa in un sussurro o aperta in una protesta. Mi saltavano, mi chiamavano, si complimentavano, li odiavo per la loro ipocrisia.

Ora Sofia mi ha chiamata.
In CIna all'inizio mi faceva strano che fosse così espansiva, così vogliosa di stare con me. Una cinese fuori del comune, con un'energia e una vivacità imbarazzanti. Ci sentiamo ancora, è qua in Italia, a ROma,
Mi ha appena chiamata dicendomi che è tornata in Italia dopo un viaggio a Parigi e chevoleva avvisarmi perchè io sono la sua famiglia qui in Italia.

Quando ero lì non c'era famiglia. Quando i miei arrivarono, nemmeno c'era famiglia. C'era far vedere che me la sapevo cavare, che la Cina non era poi così incasinata come sembrava, avevo il peso della responsabilità di un intero paese ogni volta che gestivo una comunicazione per conto loro. E' stato stancante, forse era la stanchezza che mi tirava giù il più delle volte.
Il non capire, la ripetizione, la convinzione di essere troppo scema e piccola per tutto quanto.
Il ricambio continuo di persone, le delusioni, gli amori, la fine. Uno per uno, tipo battaglia navale, tutti giù fino a che non sono rimasta sola, nell'accezione più bella del termine.
Non avevo più bisogno di nessuno. Non ne avevo mai avuto bisogno.
Caduto il muro di angosce, ecco che la Cina era casa mia ed ecco che
voglio tornare a casa.

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