sabato 28 novembre 2009

Le due Cine, le tre Cine, le mille e una Cina

Ultimamente se ne parla molto.

E per ultimamente non intendo questi ultimo cinque o sei anni (tutti hanno testimonianza dell'accrescersi esponeziale delle testimonianze, dei pareri sulla Cina, delle opinioni a riguardo della crisi e del futuro che ci attende), per ultimamente intendo questi ultimi venti anni.

Anche prima del grande boom, in Cina, come sempre, i dibattiti erano aspri e accesi, ma questo non è poi così importante perchè in Cina i dibattiti su qualsiasi cosa sono sempre stati aspri e accesi.

Più che altro è importante come all'Estero la visione della Cina sia cambiata in maniera così repentina e così singhiozzante da rimanerne stupiti.

Gli economisti la studiano da più di un secolo, ne hanno seguito evoluzioni e involuzioni, ma solo ultimamente, ovvero negli ultimi trent'anni, (e soprattutto in seguito all "incidente"di piazza Tiananmen) la curiosità verso questo paese così strano, lontano e contraddittorio, ha iniziato a divorare anche il più indifferente.

I sinologi, dall'alto della loro cultura millenaria, marcopoliana, matteoriccesca, si crogiolano e si beano nella diffusione del Verbo cinese, mentre infami insulsi falsari della comunicazione pullulano in televisione e diffondono la disinformazione, la calunnia, il vuoto.

Più che sostenere o no la Cina nelle sue azioni, trovo particolarmente interessante semplicemente seguire la Cina e le sue motivazioni.

Ultimamente, e per ultimamente stavolta intendo in questi ultimi mesi, leggendola in chiave storico-economica, molte cose mi sembrano più chiare e mi rendo conto di star sviluppando forse una doppia morale.

Osservando la bella Bjork cantare contro l'invasione del Tibet, mi incanto a riflettere sulla totale giustezza del punto di vista dell'innocente occidentale, libero da ogni peso storico, che giudica dall'alto un'azione chiaramente aberrante: i Cinesi che uccidono i tibetani, impediscono loro la salvaguardia della propria cultura, li fanno vivere in un clima di terrore, tipico, in un certo senso, di dittatura comunista (che noi detestiamo e, traumatizzati, ne proviamo inconscio terrore).

Non mi voglio inerpicare in un discorso più complesso di me, nonostante in parte lo abbia già fatto, ma spesso si dimenticano tutta una serie di fattori storici e culturali che hanno sempre ricondotto il Tibet alla Cina, ed altri fattori geopolitici che vorrebbero ricondurre il Tibet all'India che a sua volta è riconducibile agli Stati Uniti. Sto dicendo troppe cose, in maniera troppo confusa? Sto ponendo un quesito, seminando qualche ipotesi, probabilmente soltanto per guardare un'altra faccia di una medaglia che troppo spesso ignoriamo. O per dare alla situazione perlomeno il beneficio del dubbio.

Come per esempio il fatto che la Cina fino ad appunto trentanni fa sprofondava nella più tremena povertà, veniva, un secolo fa, schiacciata, sfruttata e stuprata in ogni suo porto, in ogni sua costa, proprio da noi, che dal Settecento gioviamo di industrie e sfruttamento della nostra stessa forza lavoro ( e quando abbiamo potuto anche della schiavitù).

Ora che la Cina ha deciso, con la sua abilità di pianificazione, di fare la stessa cosa (compresa la schiavitù?) ecco che ci alziamo a giudici, a filosofi, a profeti di un nuovo mondo, ovviamente sempre dall'alto della nostra superiorità economica- che durerà poco-o presi della pura di perderla?

E qui mi devo fermare per non sforare troppo dalla tematica originaria e soprattutto perchè non sarà un post ad esaurire le molteplici sfumature di una tematica ben più complessa della provocazione che ho proposto. Per una visione più approfondita mi ripropongo di scrivere un articolo o un saggio.

Nel frattempo la questione che mi premeva originariamente era quella di una Cina che cambia, a seconda dell'occhio di chi guarda, in maniera caleidoscopica.
In linea di massima, all'interno di una visione ampia della situazione sociale in Cina, ho riscontrato tre grandi contraddizioni.

La prima contraddizione nasce dall'interno. Come la Cina concepiva se stessa quando si trattava di un potere di tipo Imperiale, come, all'epoca e per secoli, l'idea che il popolo fosse così distante dall'elite intelletuale e burocratica, così povero, così solo, non rappresentasse assolutamente un problema e come questo fenomeno, tipico di una società arretrata, sia diventato un male soltanto con l'avvento dell'ideale comunista.

La seconda contraddizione nasce in seno al comunismo stesso, nel tentativo di Mao di cancellare l'elite, per cancellare le differenze sociali, e creare un costante ricambio di cervelli, un dilagare di ignorante forza lavoro, che però è sfociata in incapacità, caos, terrore. Se Mao aveva capito qualcosa, e di cose ne aveva capite tante, non aveva però trovato il modo di risolvere il problema: mobilitando le masse, nella maniera sbagliata, aveva dato loro il potere di sfogare millenni di repressione l'uno contro l'altro.

La terza contraddizione nasce nella Cina contemporanea ed è quella di cui parlano tutti: le grandi cità ricchissime, futuristiche, troppo avanti, e le campagne private di ogni appoggio o diritto o garanzia, che pure un governo comunista dovrebbe garantire.

(continua quando mia madre smetterà di rompere i coglioni....si può vivere così? l'estro soffocato)

venerdì 20 novembre 2009

Piazza Tiananmen

Mi sembra di vederla, o forse la vedo veramente, attraverso i libri, i saggi, gli articoli e gli occhi indagatori delle mie professoresse e delle loro assistenti. Ne parlano e ci raccontano di stragi, repressione e regime.
Federico Rampini ne parla nel suo libro, L'Ombra di Mao, in cui vi sono interviste a chi Tiananmen, qul gigno dellì89, l'ha vissuta. E poi un documentario interessante, toccante(http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/tankman/view/ , che vale la pena di vedere anche solo perchè noi possiamo farlo.
E c'è poi anche la mia esperienza personale, delle domande a cui i ragazzi cinesi non sapevano o non potevano rispondere.
Immagino piazza Tiananmen gremita di giovani e meno giovani,milioni, a dormire per terra, nelle tende, per mesi. Come anche noi eravamo negli anni settanta, sensibilizzati da qualcosa che ci faceva così male.
A loro faceva male e avevano voglia di uscirne.
E giù con tutte le teorie, su cosa loro volessero o non volessero davvero, su chi li appoggiasse, sul perchè del fallimento. Ma queste sono cose per addetti ai lavori, l'impressione per il profano è quella di una piazza grigia, pesante di palazzi pesanti, di bandiere rosse troppo in alto, piena di vita, brulicante di aspettative.
L'impressione è legata ad un immaginario lontano, troppo perchè la vera piazza non è più così, la vera piazza conserva la sua dignità di regime e mi sembra di vederla, adesso, spazzata da un vento freddo e secco, che ha allontanato le nuvole. I palazzi grigi illuminati, una lunga fila per il mausoleo di Mao, una piccola folla davanti alla bandiera e il solito andirivieni di vecchietti dalla Città Proibita. La piazza che ho conosciuto io, in cui ho vissuto assolati pomeriggi, gelide mattine, desolate notti, è una piazza silenziosa.
Mi dicono che perfino a capodanno non c'era nessuno. La festa era altrove, nelle case, nelle piccole vie, negli hutong. Oppure, al contrario, davanti ai bei teatri, nei ristoranti, nei pub, tra i grattacieli e i locali degni di Manhattan..la vita è altrove, mentre Tiananmen rimane bloccata in un cerchio di militari sempre in marcia.